Conversazione con Natalia Aspesi

di Lucia Tancredi

intervista tratta dal mensile di scrittura ricreativa ev, anno I, Dentro, numero 7, ottobre 2000

Certi vecchi ascensori quando sferragliano nelle loro gabbie alla fine della corsa lasciano sempre una linea di respiro. Così, prima di aprire la porta, si ha il tempo di formularsi con golosità questa domanda: come sarà Natalia Aspesi che ci aspetta sulla soglia di casa? Il primo particolare: non c’è il famoso caschetto biondo all’acetilene come appare nelle foto. Natalia Aspesi ha capelli morbidi, di un biondo-fieno, quasi di lino, una pelle trasparente, delicata e palpebre rosa. “Va bene se ci accomodiamo in cucina? Vi preparo un caffè? Un bicchiere d’acqua, senza piattino è lo stesso?”
Non c’è nulla della rinomata coriacità alla Aspesi. Vuole essere premurosa con noi, non si capacita dell’idea che abbiamo fatto tanta strada per intervistare proprio lei, una giornalista. Mi viene da pensare che le stesse maniche ci porgono tazzine sono buone, con una penna, a sgominare zelanti e parrucconi, dive obsolete e i soliti tartufi della politica.

Nella sua rubrica “Questioni di cuore” spesso le scrivono personaggi dominati da passioni cannibalesche che consumano tutta la loro vita. In una risposta lei dice di essere “stufa delle passioni unilaterali” e invita ognuno alla dignità, alla consapevolezza, alla leggerezza. Ma cosa muove le viscere al punto da farci essere tanto ciechi?

Il bisogno assoluto di amare è un modo di affermazione di sé. La passione viscerale è ancora più forte quando non è ricambiata, è una forma di guerra che costringe gli altri ad amarti. È forse assurdo ricordarlo, ma anch’io da giovane ho inseguito giovanotti in fuga. Io, però, ho la facoltà di scordare il passato e di non ricordare. Qualcuno ogni tanto mi dice: sai, sono stato fidanzato con te. I libri di persone che ricordano l’infanzia li ammiro, ma io non ci riesco. È una forma di difesa. La mia infanzia e la mia adolescenza sono state terribili. Non so spiegare le ragioni per cui vivo solo nel presente. Io penso che dipenda dal fatto che sono molto egoista e cinica. L’età mi aiuta: la vecchiaia è vitale, perché si perde meno tempo nelle cose che contano poco. Ci si dedica di più a se stessi e sempre meglio a meno persone. E si è presi da un gran desiderio di vedere la società migliorare. Anche se mi sto immalinconendo. Io vorrei contribuire, nel mio piccolo, perché il mondo conoscesse il meglio. E invece il mondo più si globalizza, più si chiude nei suoi egoismi. Un tempo erano i vecchi ad essere conservatori. Oggi tutto è cambiato. I giovani ricercano il loro benessere, rimuovono tutto quello che può metterli in discussione. Credono nell’informazione, nella pubblicità, nei manifesti immensi di Berlusconi.

La avvertiamo che scriveremo tutto quello che dice, anche su Berlusconi. “Sono sempre stata una gran villana, non che sia una bella cosa. Ma la vecchiaia mi dà il privilegio di dire davvero quello che penso”.

Questa mattina, sfogliando un libro, ho visto l’albero della vita che nella Caballah ebraica ha i rami rivolti verso il basso per ricordarci che la creazione procede all’ingiù. Questa immagine mi ha fatto pensare a lei che pare sempre così brava a stare con i piedi dentro la terra, dentro le cose. Come ci riesce?

Per carità non fatemi domande troppo intellettuali! Io rispondo, nei miei limiti, con la saggezza di chi è staccato da certe cose. Può darsi che io sia fredda, ma a volte è giusto far sapere a persone che stanno perdendo la loro forza, i loro sogni, che tra qualche anno queste cose terribili forse non conteranno più. È giusto vivere le passioni, ma senza concentrarsi su questa sofferenza, perché da sola si evolve, soprattutto se la passione è amorosa. Io ho l’impressione che le ragazze, particolarmente, siano rimaste molto indietro. Si innamorano per la vaghezza di innamorarsi, per ragioni che non sono indispensabili all’amore, trascurando quelle affinità, quelle condivisioni reali che possono mettere insieme un uomo e una donna e che non sono le vacanze o il divano bianco. Ci facciamo dire dalla televisione quello che deve essere la felicità. Poi, si diventa come nel gineceo del film di Altman “Il dottor T”, che a me è piaciuto molto, dove le donne sono giovani, autonome, e tanto uguali, tanto infelici.
Il telefono squilla spesso. La voce, che con noi è morbida e comoda, solo quando risponde diventa nocchiuta e perentorea. Per scusarsi: “Perdonatemi, mio marito mi dice che ho una voce da gobba”.

Lei scrive di moda, di spettacoli e di eventi in cui l’esteriorità e l’effimero sono essenziali. Come fa, poi, ad arrivare dentro al cuore delle cose?

Io guardo e cerco, mi viene istintivo essere curiosa, soprattutto delle donne. Cerco di andare oltre l’effimero, ma ritengo che l’effimero non sia completamente inutile. Seguo le sfilate. Ci sono cose serissime intorno alla moda. Non penso solo al lavoro ed all’esperienza di tanta gente. La moda ci aiuta a svelare i meccanismi. Non si deve credere che la moda cambia. Ci vestiamo sempre allo stesso modo. È la comunicazione attorno alla moda che ci fa credere che le cose si evolvano e ci impone di stare al passo. Conta il contenitore, non il contenuto. In certi involucri l’oggetto ci appare più degno e più irresistibile. Io cerco di svelare l’inganno, come quando ci divertiamo a veder crollare un castello di carte. Basta mettere in luce il plusvalore.

Quali sono i momenti in cui Natalia Aspesi fuori è lo specchio di quella che è dentro?


Con il passare degli anni sono diventata sempre più me stessa. Sempre più maleducata, non avendo nulla da perdere. Credo di aver raggiunto una completa indifferenza nei confronti di quello che la gente pensa di me e godo il privilegio di sapere che se dovessero togliermi quel poco di potere che mi sono guadagnata non mi importerebbe nulla. Ieri mi telefona un collega e dice: “Sono un giornalista di Libero”. E io: “Mi dispiace per lei!” E ho attaccato. Mi cerca per intervistarmi una tizia di Rete 4. Io non collaboro, mi piace fare resistenza passiva. Non penso di dover essere intervistata in qualità di giornalista. È un mestiere talmente scaduto, al servizio di potenti che ci sfruttano e si servono di noi. I miei colleghi mi guardano con sufficienza, perché tengo una rubrica che si chiama “La posta del cuore”. A me piace proprio perché non ha niente a che fare col giornalismo. Rispondere alle lettere che mi inviano mi cura dalla grande solitudine sociale che sento e mi dà la sensazione di essere utile.

L’opera teatrale “I monologhi della vagina” di Even Ensler sono stati recitati in America dalle dive più alternative che hanno voluto dimostrare che le donne non devono più vergognarsi di quello che hanno “dentro”. Per aggiornare una versione italiana, tanti hanno detto che lei sarebbe un’interprete ideale. Quale vagina vorrebbe rappresentare?

(Sorride, Natalia Aspesi, e risponde con ironia) La mia. Avrebbe molto poco da raccontare. E non saprebbe neanche quali parole mettere insieme. Per tanti anni da ragazze ce la siamo portata dietro come una cosa non meglio identificata che poteva fare davvero poco, tantomeno parlare! Col femminismo abbiamo imparato a farne un uso più disinvolto e forse più oculato. Mi piacerebbe tanto sapere cosa avrebbe da dire!

Certi vecchi ascensori, quando ti riportano nell’androne, lasciano sempre quella linea di respiro in cui, se abbiamo appena conosciuto una persona, possiamo godere a caldo della suggestione che, per un attimo, ci lascia percepire il valore e la specialità di quella vita. Sensazione talmente volatile che già evapora appena messi in strada. Certe vite sono talmente piene che i ricordi competono per l’inquadratura. La vita di Natalia Aspesi è netta, tanto saggia ed igienica che ogni giorno si ingegna a gettare zavorra, acqua buia, fino a creare uno spazio vuoto d’accoglienza. E in questo vuoto zen lei non fa la giornalista. Riceve un piccolo pezzo di mondo e si mette ad ascoltarlo. —